di Stefano Vaccara
NEW YORK (ITALPRESS) – Doveva essere un discorso “sull’economia”. È sembrato invece uno sfogo in diretta nazionale, un rant nel senso più pieno del termine: rapido, nervoso, ripetitivo, quasi certamente scritto o dettato dallo stesso Trump, tanto era sgraziato nella forma e ossessivo nei contenuti. Dal Diplomatic Reception Room della Casa Bianca, con le luci natalizie sullo sfondo, Donald Trump è entrato nelle case degli americani con un tono che strideva con l’atmosfera: monotono e allo stesso tempo rabbioso, un rantolo stridente e disturbante. Ha esordito con un secco: “Buonasera America. Undici mesi fa ho ereditato un disastro e lo sto sistemando”. Da lì in poi, una raffica di frasi autocelebrative, promesse e accuse, lette a tutta velocità, con foga crescente e una voce che saliva di irritazione. Il punto d’arrivo del discorso è stato il suo riassunto trionfalistico: “Stasera, dopo undici mesi, il confine è sicuro, l’inflazione si è fermata, i salari sono in aumento, i prezzi sono scesi, la nostra nazione è forte… l’America è rispettata ed è tornata, più forte che mai”.
Peccato che gran parte di queste affermazioni non corrisponda alla realtà: l’inflazione non è “fermata”, i prezzi non sono affatto scesi in modo generalizzato, e sono ancora famiglie e consumatori a pagare il costo dei dazi, non certo a beneficiarne. Ma nel discorso di Trump i dati servono più come slogan che come descrizione del reale. Il problema – politico prima ancora che economico – è che l’America del dicembre 2025 non è più quella della campagna elettorale del 2024. Allora Trump appariva sicuro, dominante, persino magnetico per i suoi sostenitori. Stavolta, invece, la sensazione è stata opposta: difensiva, ansiosa. Non il leader che convince, ma il capo che pretende consenso alzando la voce. Quando un presidente chiede la prima serata alle reti nazionali, di solito annuncia qualcosa di importante. Qui la notizia non era il contenuto, ma il tono. La linea del discorso è stata chiara: se qualcosa non funziona, la colpa non è sua. Lo ha detto esplicitamente: “Non è colpa dei repubblicani. È colpa dei democratici”. Ha insistito più volte sul fatto di aver “ereditato un disastro”, sostenendo che l’economia starebbe andando benissimo e che gli americani dovrebbero solo aspettare ancora un po’ per accorgersene.
Poi l’annuncio di un assegno ai militari, presentato come gesto patriottico: “Stiamo mandando a ogni soldato 1.776 dollari”, ha detto, parlando di un “dividendo del guerriero”. E ha aggiunto, con enfasi: “Gli assegni sono già in arrivo”. A pagare, secondo lui, sarebbero i dazi, descritti come una macchina miracolosa capace di rendere l’America più ricca, finanziare bonus e rilanciare l’industria. Ma ascoltandolo snocciolare numeri e superlativi, con quello sguardo teso e il dito puntato idealmente contro il pubblico, è emersa un’altra realtà: Trump non parla più a un Paese ipnotizzato, ma a cittadini che confrontano slogan e carrello della spesa, promesse e bollette. Ed è proprio lì che il discorso ha tradito qualcosa di più profondo: la fine di quel momento “magico” in cui bastava affermare per essere creduti. Mercoledì sera, più che forza, dal presidente è trapelata inquietudine. E quando un leader deve gridare, significa che sente di non essere più ascoltato da chi prima credeva, ubbidiva e magari sarebbe stato anche pronto a combattere per lui.
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